Vendemmia

In autunno è tempo di vendemmia, cioè di raccogliere l’uva per fare il vino. Una tradizione vuole che, in questo periodo, i contadini, si procurino i cestini più belli e vi raccolgano i grappoli d’uva più belli (di uva bianca, secondo la tradizione). I bambini venivano incaricati di portare l’uva al parroco. Il vino prodotto con quella particolare uva veniva consacrato e utilizzato durante la Santa Messa, per il rito dell’Eucarestia ovviamente. Quando i bambini portavano l’uva al parroco ricevevano in cambio gli scarti delle ostie, per questo erano molto felici di ricevere l’incarico.

La festa di Maria Nascente patrona di Talamona

Questa tradizione (che come poi vedremo diventa una vera e propria festa che continua ancora oggi) cade l’8 settembre (oggi la si festeggia la domenica successiva all’8 settembre se questo giorno cade non di domenica). All’inizio la tradizione prevedeva che si facesse un fioretto particolare alla Madonna: fino al giorno della festa non si doveva mangiare uva. C’era chi si imponeva di fare il fioretto e chi invece era meno fiscale. Non appena giungeva l’8 settembre, al termine delle celebrazioni, delle varie funzioni religiose eccetera, correvano tutti nelle vigne a farsi grandi scorpacciate di uva per celebrare la fine del fioretto.

La festa di primavera o ciama mars

Tra la fine di febbraio e inizio marzo (oggi il primo di marzo), adulti e bambini giravano per la campagna suonando campanacci e corna di capra recuperate in seguito all’uccisione degli animali, svuotate e suonate soffiando all’interno. Questa festa serviva a propiziare il ritorno della primavera e ancora oggi a Talamona si vaga per le strade suonando e invocando la primavera, risvegliare la natura, far crescere di nuovo l’erba e i fiori. Oggi naturalmente tutto avviene in forma di gioco, ma c’è stato un tempo in cui non si era così sicuri che dopo l’inverno tornasse automaticamente la primavera e si sentiva il bisogno di propiziarla. Si trattava probabilmente di un retaggio pagano che la chiesa ha accettato di inglobare nel cosiddetto folklore popolare che integra i rituali religiosi più classici. In realtà questa tradizione riguarda la Valtellina tutta. I campanacci utilizzati nel corso di questo rituale vengono attaccati poi alle mucche che partono per la transumanza durante l’estate quando si producono i cosiddetti formaggi d’alpeggio. Un luogo tipico dove si svolgeva questo rituale era l’alpe Scermendone e in generale i monti della Val Masino dai quali si poteva godere una vista a 360° su tutta la valle sottostante. Quando questa tradizione era particolarmente sentita, i cortei di suonatori di campanacci comprendevano dalle sessanta alle cento unità.

L’ultimo giorno di gennaio

In questo giorno i bambini si divertivano a girovagare di casa in casa richiamando fuori dall’uscio le persone gridando “l’è fo ul giner” cioè “è finito gennaio, poi ridevano e correvano via veloci. Si divertivano soprattutto con le persone che si arrabbiavano.
Una variante di questa via di mezzo tra una tradizione e un divertente passatempo infantile, lo si aveva il due febbraio. I bambini in questo caso, prima di schizzare via veloci ridendo gridavano “l’è fo l’urs dalla tana” cioè “è uscito l’orso dalla tana”.

Ul dì di mort (il giorno dei morti)

Come dice il nome stesso, questa tradizione ricorreva il 2 novembre, giorno della commemorazione dei defunti. I bambini partivano la mattina dalle proprie case e a gruppetti vagavano di casa in casa recitando preghiere e orazioni per i morti e ricevevano in cambio del pane fatto in casa, pane casereccio denominato il pane dei morti. In altri paesini al posto del pane, venivano distribuite delle frittelle di mele tagliate a fette avvolte con della pastorella e fritte.

Ei va a circà ul Segnur (alla ricerca del Signore)

Questa ricorrenza cadeva il giovedì santo di ogni anno, giorno in cui, secondo i Vangeli, Gesù era stato catturato dai soldati Romani mentre pregava nell’orto degli ulivi in compagnia di alcuni Apostoli, tra cui Giuda Iscariota, il traditore. Questa tradizione prevedeva che ogni anno si mettesse in scena la cattura di Gesù in un bosco che si trovava nei pressi del cimitero. Allora quella zona non era asfaltata, ma vi sorgevano prati, boschetti, muracche (muriccioli costituiti da ciottoli e sassi accatastati provenienti da campi e prati) e caurghe (sentieri costituiti perlopiù da ciottoli). Ed era quindi in uno di questi boschetti che si metteva in scena la cattura di Gesù che veniva poi portato in chiesa, dove poi si procedeva con le funzioni tra cui la lavanda dei piedi. Per questa funzione, che faceva parte della liturgia della Santa Messa, la tradizione prevedeva che si scegliessero i 12 uomini (12 come gli Apostoli,) più poveri e anziani di Talamona, scelti tra coloro che risiedevano nella casa di riposo che allora si chiamava casa dei poveri di Dio che si trovava (e si trova ancora) nei pressi dell’oratorio e ospitava appunto i più poveri che, se erano almeno in buona salute, si rendevano utili svolgendo qualche lavoretto; in caso contrario venivano mantenuti dal comune come avviene ancora oggi. Una volta scelti i 12 uomini erano loro a svolgere il rito della lavanda dei piedi.

Gabinac

Questa ricorrenza cadeva il giorno prima dell’Epifania, il 5 gennaio. Letteralmente la parola gabinac significa notte dei doni e pare derivi dal tedesco (personalmente ho scoperto che questa tradizione è un’eredità dell’epoca della dominazione longobarda in tutta la Lombardia che proprio dai Longobardi prende il nome, quindi è diffusa in più paesi; i Longobardi avrebbero lasciato come eredità a queste terre anche alcune parole confluite poi nei dialetti locali come la parola biot che significa nudo ndr). I bambini partivano a gruppetti dalle proprie case e vagavano di porta in porta. Non appena qualcuno offriva loro ospitalità salutavano educatamente gli ospiti e poi pronunciavano la parola gabinat ricevendo in cambio un pupazzo fatto di pane e noci (il matoch) oppure, in case più povere, una ciotola di castagne cotte. Per questo giro, i bambini partivano al mattino presto oppure alle tre del pomeriggio, quando le campane suonavano appositamente, quasi a costituire una sorta di segnale che dava inizio ai festeggiamenti.Immagine 1 Probabilmente i bambini non conoscevano il vero significato della tradizione e nemmeno della parola gabinat. Non facevano altro che mantenere viva la ricorrenza che comunque ai giorni nostri è praticamente scomparsa al pari di altre tradizioni. Il matoch che veniva donato era usato come dono natalizio offerto in una versione più bella decorato, solo in occasione del Natale, con uvetta, che non veniva usata speso in quanto richiedeva lavorazioni particolari. Solitamente erano le madrine di battesimo che in occasione del Natale regalavano il matoch ai bambini.

Vecchie Credenze

Quasi tutte le famiglie contadine possedevano del bestiame, soprattutto mucche, che venivano allevate nelle stalle. In un’epoca dove non esistevano salotti o bar o comunque luoghi di incontro e di intrattenimento, dove non esistevano neppure i riscaldamenti, le stalle erano il luogo d’incontro più comune, soprattutto nei mesi invernali, perché nelle stalle c’era molto calore dovuto alla presenza del fieno e degli animali. In estate invece ci si ritrovava nei cortili fuori dalle case su panche di pietra. In questi luoghi di ritrovo più famiglie si attardavano per intrattenersi a vicenda, si parlava del più e del meno, le donne filavano, gli uomini parlavano del lavoro, discutevano del raccolto, se era stato buono o cattivo e altre cose simili. I nonni raccontavano ai bambini molte storie anche paurose per far si che non uscissero la sera quando, dopo le sette, suonavano le campane dell’Ave Maria, come le chiamavano i contadini. Quei rintocchi segnavano la fine della giornata, come una sorta di coprifuoco, allo scoccare del quale i contadini si ritiravano nelle case o nelle stalleimages. Tramite il tramandarsi delle superstizioni popolari i bambini venivano indotti a rispettare il coprifuoco. Le superstizioni popolari caratterizzavano il mondo contadino ed erano un modo molto efficace di indurre tutti, specie i bambini, all’osservanza delle consuetudini. I bambini sentivano raccontare dai grandi, ad esempio, che di notte le strade erano infestate dalle streghe, dagli spiriti, finanche dal diavolo in persona. Perciò solo pochi bambini particolarmente coraggiosi o intelligenti che credevano poco a queste storie, rompevano i divieti e si avventuravano in giro sfidando le tenebre. Ma anche loro ad ogni piccolo rumore che sentivano una volta usciti, sussultavano ripensando a quelle storie e impaurendosi.

 

A Talamona in particolare, come abbiamo visto, le credenze erano collegate a delle vere e proprie leggende popolari raccontate dai contadini, che le consideravano fatti realmente accaduti. Ad esempio si raccontava di una cagnolina che si aggirava nei pressi della Roncaiola di notte. I contadini lo temevano perché dicevano che era uno spirito maligno. Poi c’era la leggenda delle Luiselle. I contadini dicevano che gli spiriti di queste due ragazze si potevano incontrare nei pressi del torrente Tartano quasi sempre prosciugato e trasformato in sentiero ghiaioso. Chi sosteneva di incontrarle (e succedeva ancora anche in tempi molto recenti) le descriveva come due ragazze che vestivano abiti variopinti e riuscivano a ballare coi tacchi a spillo sui sassi senza perdere l’equilibrio. Un’altra superstizione era collegata alla sepoltura degli animali. Dopo poco tempo le sepolture mandavano dei bagliori. Noi oggi sappiamo che questi bagliori sono il risultato dei gas che si formano in seguito alla decomposizione, ma una volta ovviamente nessuno medicina1sapeva queste cose così si diceva che quei bagliori fossero i bagliori della paura. Altre consuetudini e credenze erano legate alla notte tra l’1 e il 2 novembre, tra il giorno di Ognissanti e quello dedicato alla commemorazione di tutti i defunti. Per tutti loro era uso celebrare una messa a mezzanotte tra queste due date e tutti dovevano prenderne parte, adulti e bambini. A chi faceva i capricci e non voleva andare perché voleva stare a casa a dormire veniva raccontato che i morti sarebbero venuti a tirare i piedi nel letto a tutti coloro che dormivano invece di onorarli alla messa di mezzanotte. Di fronte a questa prospettiva nessuno voleva più stare a letto e tutti andavano a Messa.

Una leggenda legata alla processione dei morti di San Giorgio

Correva l’anno 1300. Presso la chiesa di San Giorgio sorgeva l’agglomerato di case che costituiva il nucleo dell’antica Talamona. Da San Giorgio fino a San Gregorio (dove oggi sorge il tempietto degli alpini) la gente raccontava che si svolgeva una processione di morti (non in onore di morti, proprio di anime dell’Aldilà) che veniva considerata in qualche modo miracolosa. Ciascun morto teneva una candela in mano. Una notte un uomo del paese si trovò a passare proprio per quella strada e incontrò la singolare processione. Si fece da parte per lasciar passare le anime, colto di sorpresa e anche un po’ spaventato. A un certo punto l’uomo domandò ad una delle anime che passava di dare anche a lui una candela come ce l’avevano tutti loro. Venne accontentato per poi dover subito dopo constatare con terrore di non stare tenendo in mano una candela bensì un braccio umano. Sulle prime non seppe cosa fare poi pensò di recarsi l’indomani dal parroco per raccontare tutto e mostrare anche il macabro reperto. Il parroco gli propose di riportare alla processione il braccio che aveva ricevuto. L’uomo si ripresentò dunque nello stesso luogo e alla stessa ora. Quando vide passare la processione cercò di ritrovare lo spirito che gli aveva dato il braccio e quando lo riconobbe tra quella strana folla, glielo restituì.BIGLa processione dei morti

La chiesa dei sette fratelli

La chiesa dei sette fratelli è un antico oratorio sperduto tra i pascoli sassosi del versante retico a quota 210 m di altitudine in comunità di Mello e raggiungibile solo a piedi salendo da Poira fin sotto le creste rocciose del monte Scesa. Il piccolo edificio è a forma di capanna e sull’architrave di pietra reca incisa la data del 1761 mentre sopra l’altare sono affrescati Santa Felicita e i suoi sette figli venerati a Roma come martiri cristiani. Questo particolare ha portato ad attribuire la cappella votiva ad un gruppo di emigranti valtellinesi rientrati dalla città capitolina, che avrebbero avuto l’iniziativa di farla costruire. Su questo edificio però aleggia anche una leggenda popolare che racconta di sette fratelli in costante disaccordo tra di loro. La loro madre, Felicita, un giorno perse la pazienza e dopo aver versato nel paiolo la pImg_4369olenta per tutti gettò il mestolo in aria gridando “via poch de bun un per  cantun” cioè “andate via disgraziati ognuno per la sua strada”. I figli si allontanarono sulle montagne seguiti ognuno da uno schizzo di polenta. Trascorso un po’ di tempo il figlio maggiore ritornò a trovare sua madre e la condusse in visita alla sua dimora. Felicita a quel punto si mise alla ricerca degli altri figli e peregrinando tra monti e valli alla fine riuscì a trovarli e a riunirli tutti in un unico luogo chiamato San Giulio. I figli erano molto cambiati e la madre, per la gioia di averli ritrovati e di sapere che si erano conciliati fece costruire la cappella che divenne nota come la chiesa dei sette fratelli.